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La logica di Adolf Loos

18 Marzo 2018

C’era una volta la città alla Potëmkin. Il consigliere di Caterina II di Russia l’aveva costruita per fare contenta la zarina. Lei che aveva appena messo piede in Ucraina e che voleva vedere che magnifico lavoro aveva fatto il suo consigliere prediletto.

Le facciate allegre delle case punteggiavano il panorama e dalle finestre facevano capolino i visi dei contadini sorridenti, felici di abitare in quel bellissimo villaggio. I colori erano abbaglianti, l’eccitazione palpabile.

Una meraviglia.

Ma ecco l’amara verità. Erano tutte di cartapesta. Niente villaggi per gli abitanti delle steppe ucraine, ma solo chilometri e chilometri quadrati di arido paesaggio. Una quinta scenica per ingannare Caterina e soggiogare le povere popolazioni conquistate che no, non stavano affatto sorridendo. Forse erano i crampi della fame.

“Dica mio caro Potëmkin, di cosa sono fatte queste splendide case?”

“Di solida pietra, sua eccellenza”

Disse il favorito della zarina mentre una folata di vento buttava giù le facciate di cartone

 

Potëmkin gliel’aveva fatta.

 

 

Borghesia e nobiltà

Quando Adolf Loos ha scritto Die Potëmkinsche Stadt, in verità stava parlando di Vienna. Era una critica feroce a quello che stava diventando e a quanti l’avevano resa così brutalmente bugiarda, rozza e volgare.

Uomo di grande spirito e intelligenza, carismatico, polemico, solitario e sordo, estremamente cerebrale eppure così sentimentale, Loos era uno che aveva una regola giusta per ogni cosa. Argomentava tutto, peggio di Socrate.

Tirava fuori grandi verità. Il mondo visto attraverso i suoi occhi era governato da principi matematici, norme incorruttibili. Loos era uno che poteva darti del cretino in qualunque momento e farti credere che avesse pure ragione.

Insomma, Loos era uno che giudicava e anche pesantemente, ma sempre con cognizione di causa.

Alla fine del secolo Vienna era diventata una signora di età avanzata, stanca e in sovrappeso. Seduta su una fantastica sedia scomodissima. Ma d’autore. Imbellettata con grossi gioielli d’oro che faceva fatica a portare. E forse qualcuno era pure finto.

Un largo sorriso plastico e un’educata postura nascondevano in realtà lancinanti dolori alle chiappe. La monarchia stava decadendo, la borghesia le stava facendo il culo, guadagnando terreno politico e ricchezza. Ma non nobiltà. No, quella non l’avrebbero mai conquistata neppure per tutti i soldi del mondo. Che gente s-nob.

Era inutile ammassare valanghe di pezzi unici d’artista/architetto nelle proprie case. Il sangue restava rosso e non voleva diventare blu. Ogni tentativo era superfluo.

 

 

Premonizioni

Loos sapeva che qualcosa stava per accadere e avrebbe fatto qualunque cosa piuttosto che fingere che fosse tutto ok. Non era per niente dorato il mondo in cui viveva.

Il Kaiser era visibilmente in difficoltà, le minoranze avevano iniziato a ribellarsi, i cittadini eleggevano sindaci antisemiti e per come era finita, la prima guerra mondiale aveva assestato un colpo quasi mortale all’Austria.

Un formicaio si muoveva sottoterra tra le radici dell’Impero.

Anche Otto Wagner, che ne sapeva più degli altri, aveva cercato di denunciare la fine angosciante che stava per travolgere Vienna.

Nelle sue architetture leoni guardiani proteggevano il cammino degli austriaci e lanterne infuocate tentavano di illuminare la stretta via sul finire del secolo.

La metropolitana, ultima fermata, una residenza dell’imperatore. Capolinea. E poi oro, oro dappertutto. Una gran bella critica d’autore.

 

 

Vienna città dorata

Vienna provava ad essere sfarzosa, gloriosa e dorata, ma il risultato era più simile a quello della bigiotteria placcata in oro. Si sapeva che grattando un po’ la superficie con le unghie tutto il disagio sarebbe venuto a galla. Come un sorriso a cui mancano un paio di denti. D’oro.

Ciononostante vestiva i suoi edifici più importanti di un magnifico splendore, ori, stucchi, smalti, maioliche, marmi. La Ringstrasse pullulava di palazzi di rappresentanza in stile. Di qualunque tipo, bastava che fosse grandioso e stupefacente, che rappresentasse la potenza dell’Impero.

E allora si dia il via alle danze!

Richiami barocchi, classici e rinascimentali. Fischer Von Erlach, per non parlare di Vasari, erano morti e sepolti, ma era come se fossero sempre lì.

A Loos pareva che Potëmkin fosse risorto e stesse mandando in scena lo spettacolo del decadimento di Vienna. Alla faccia delle steppe ucraine. Aveva distribuito i suoi miracoli e si era parecchio divertito ad abbellire gli edifici con dettagli ornamentali posticci.

Delle schifezze colossali, rozze e primitive per convincere abitanti e non che Vienna fosse ancora luccicante e riuscisse a tenere botta. Il principio quindi era fingere per salvare la faccia. Come in una scena de La grande bellezza.

Così parlò Loos. Lapidario, com’era nelle sue corde.

La finzione sarebbe dovuta servire a sfuggire al destino a cui la città sembrava condannata, vincere l’angoscia della fine che avanzava inesorabile, guarire dal trauma della perdita dei valori tradizionali della città.

Anche quei mattacchioni ribelli della Secessione Viennese la pensavano così. L’immersione totale e improvvisa nella dimensione malsana della metropoli era stata deleteria e Loos ne era consapevole, ma non aveva intenzione di perdonare.

La sua logica stringente glielo impediva, visto che la soluzione era a portata di mano. Evoluzione e adattamento. Proprio perché la teoria darwiniana ci ha insegnato che chi non si adatta è un uomo morto, cambiare era necessario.

 

 

Esercizio di stile

L’abitante della città è uno sradicato. C’era bisogno di punti di riferimento solidi.

Ma dove trovarli? A cosa fare riferimento? Certamente era impossibile rinunciare alle radici di un popolo, ma tutta quella nostalgia per il passato incominciava a suscitargli un certo fastidio.

La tradizione poteva essere la giusta risposta. Ma non quella della biedermeier o dell’heimatkunst con le case di legno e i tetti a falde disseminate sulle montagne (tetto piano o tetto a falde?!?! Un dubbio esistenziale).

La questione era stabilire un collegamento con il passato, in un continuum storico e architettonico che consentisse un’evoluzione ma anche un’emancipazione dalla ridondanza dello stile.

Loos affermava con convinzione che l’architettura del suo tempo non poteva avere uno stile. Non poteva essere deciso a tavolino come facevano i funzionalisti in un periodo di poco successivo (e chi diceva che Loos fosse un loro precursore si sbagliava di grosso).

Ma non poteva nemmeno essere ripescato dal passato, come invece facevano quei frignoni dei neoclassicisti. Inutile dire che entrambe le opzioni gli facevano orrore.

No, lo stile si sarebbe autodeterminato in funzione del contesto in cui un’architettura si inseriva. Molteplici stili da usare, un solo principio di scelta.

 

 

Ornamento primitivo

Come si può intuire, su un altro punto Loos era intransigente. La questione dell’ornamento era una faccenda spinosa. Su questo argomento aveva aperto un lungo dibattito, a partire da suo saggio più famoso: Ornamento e Delitto. Un nome, un programma.

Dopo di che è stato sulle palle a molti dei personaggi influenti dell’epoca. Alcuni gli revocavano le commissioni, altri bocciavano i suoi progetti, interrompevano i suoi cantieri.

C’è da dire che lui non ha fatto niente per rendersi simpatico agli occhi di nessuno. La punta della sua penna era avvelenata e nei suoi occhi si poteva leggere quello che pensava, senza filtri.

Ovvero: voi non capite (ma capirete a vostre spese). Che suonava proprio come una minaccia.

 

 

Lo stile del mio tempo

Una ristretta cerchia di amici lo supportava e la pensava come lui. Credevano che l’ornamento dovesse essere eliminato dall’architettura come dalla musica e dalla letteratura. Era solo una metafora, un filtro alla verità. Una buffonata. E si sa cosa succede a chi vuol dire la verità a tutti i costi, prima o poi s fa dei nemici.

Più che salvare la sua faccia, per Loos era molto più importate identificare quello che definiva lo stile del suo tempo, senza fronzoli, banalità, applicazioni posticce. Bisognava fare riferimento alla tradizione e alla classicità, ma epurandone le forme, eliminando il superfluo, rendendole finalmente moderne.

Loos condannava l’eccesso di creatività del mediocre artista-architetto e aveva bandito i concetti estremi di fantasia e imitazione dalla sua architettura che riteneva frutto di perversione umana. Quasi una psicosi.

Odiava i nostalgici e detestava Olbrich con le sue dimore d’artista e Hoffman e gli altri secessionisti con le loro oscenità art nouveau. Pensava che tutto quel disegnare decorazioni si addicesse di più ad un bambino, che non ha ancora coscienza e esprime così la sua identità.

Oppure a un primitivo che decora il suo corpo per affermare il suo potere nella società tribale, come facevano i guerrieri.

O peggio ancora, a un delinquente.

Insomma, quello che si tatua un soggetto diverso a seconda del delitto che ha commesso. Aveva fatto persino ricorso alle nuove ricerche freudiane sui disagi dell’anima. A quanto pare c’era una stretta correlazione tra disegno e repressione dei desideri inespressi. Una logica inappuntabile.

Ne abbiamo abbastanza del genio originale, ripetiamoci all’infinito.

Non c’era niente da inventare o da ricopiare. Per Loos il concetto di architettura moderna doveva compiersi naturalmente, legandosi alle radici della memoria e reinterpretando le forme della classicità.

Giustamente diceva: i romani non avevano avuto bisogno di inventare ordini nuovi. Gli bastavano quelli inventati dai greci. Piuttosto era meglio concentrarsi ad esplorare le nuove frontiere della tecnologia che avrebbero dato certamente dei risultati grandiosi e smetterla di ossessionarsi con la ricerca di questo stile nuovo.

Loos amava il progresso. Aveva capito che la ricerca dello stile era una distrazione bella e buona. Fate largo all’architettura dell’inattualità!

 Non temere di essere giudicato non moderno.

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