Nel covo dei romantici. L’architettura funeraria del cimitero di Père-Lachaise
Esiste un momento di rottura. Tra illuminismo e contro-illuminismo. Si parla di struggimento e di romanticismo. Di storie leggendarie che prendono vita. Di racconti del terrore che si innestano nei nostri ricordi come se li avessimo vissuti. Proprio davanti ai nostri occhi il principe Vlad di Valacchia, detto anche affettuosamente l’Impalatore, si trasforma da pezzo di merda sanguinario a vampiro sfascia-colli.
È il trionfo delle rovine e della natura che le avvolge. Un tripudio di architetture decadenti che sarebbe sacrilego rimettere in sesto. È un amore folle per l’archeologia, per il mistero e le morti improvvise per mano di spiriti risvegliati contro la loro volontà. Per le sabbie del deserto d’Egitto.
John Ruskin ne aveva dette un paio in proposito qualche tempo più tardi. Influenzando alle radici il movimento Arts&Crafts, contro le macchine e il progresso. E, in fatto di natura e rovine, chi meglio di Piranesi? Abbiamo bene in mente le sue vedute della via Appia, punteggiate di tombe di antichi romani che chiedono al viandante di fermarsi un momento a leggere un epitaffio fra i tanti. È il fascino del tempo che passa e della sua caducità che ci trascina nell’abisso del sentimento. Così, l’architettura dei vivi si mescola all’architettura dei morti, convivono l’una accanto all’altra, come segno di prestigioso riconoscimento. Quando ancora faceva figo avere la casa vicino a una tomba.
La Rivoluzione francese delle tombe
Tutto questo continuò fino a che, verso la metà del ‘700 qualche intellettuale francese non si accorse che forse non era il massimo. In effetti avere i luoghi di sepoltura in città non era di certo garanzia di igiene e salubrità in un periodo storico in cui, già di per sé, la situazione era piuttosto complicata. Alla fine, arrivò Napoleone che poco prima di scomodare il Papa per farsi mettere la corona in testa (che poi forse l’aveva fatto da sé, facendo solo perdere tempo a Pio IX che si chiedeva che diavolo ci facesse a Parigi), aveva emanato l’editto di Saint Cloud. Aveva messo insieme le normative e commissionato il primo cimitero fuori città ad Alexandre-Théodore Brongniart, architetto e urbanista che progettò Père-Lachaise.
Lo attraversiamo come turisti in vacanza. Con i suoi occhi e le sue bocche spalancate. Lungo le sue vie alberate e silenziose. L’odore del muschio e di chiuso che sentiamo a ogni passo. Certo è che questa atmosfera ci fa un po’cagare addosso. Ma è anche vero che stuzzica parecchio l’immaginazione. È la città dei morti che ci accoglie calorosamente come la strega di Hansel e Gretel.
Anatomia urbanistica di un cimitero
Il cimitero di Père-Lachaise inaugura una nuova era dell’architettura funeraria. La ritualità, la statuaria, la solennità e il silenzio. Sono tutte caratteristiche che ci riprecipitano nello scompiglio del romanticismo. La planimetria, così simile a quella di una vera città dei vivi, prende ispirazione dei giardini all’inglese.
Una distribuzione composta seppure spontanea di spazi e vegetazione che si snodano lungo assi curvilinei. Un disordine ordinato che ritrova il suo centro nella grand chappelle posta tra le braccia di due filari di alberi. Sembrano imitare il colonnato disegnato da Bernini ai piedi di San Pietro.
Ancora una volta la caducità del tempo che, attraverso la natura ribelle, ha la meglio sull’architettura dell’uomo. Un uomo che d’improvviso si rende conto di non essere immortale nonostante il suo ingegno.
E come al risveglio da un sogno terribile decide che forse deve rendere l’idea della morte più accettabile, visto che, comunque la metta, morirà.
Per questo, Brongniart attinge al pittoresco e alle teorie del giardino inglese, che si affiancano alle rigorose geometrie neoclassiche imbrigliate nella loro rigida simmetria. Raccoglie le ispirazioni di poeti, filosofi e artisti che cercano di addolcire l’immagine della morte. Nel giardino trovano spazio la memoria e la vita, insieme a sepolture, cenotafi, urne, edicole, tempietti, urne e colombari. È l’immagine gentile del ricordo che scalza quella terribile del cavaliere senza testa che va in cerca, per l’appunto, della sua testa nelle notti di Hallows Eve. O, più verosimilmente, tutte le notti. In fondo, una testa vale l’altra: il soldato dell’Assia non è schizzinoso. Ne cerca una a caso. Anche perché è probabile che della sua non sia rimasto nulla. In effetti, una palla di cannone americana gliela staccò di netto, spappolandola chissà dove sul campo di battaglia.
La dolce morte, il pittoresco e il sublime
Alla base dell’idea di cimitero ottocentesco c’era l’intenzione di creare un luogo di meditazione e riflessione in cui il mondo terreno e quello ultraterreno potessero ricongiungersi. Per ammorbidire la durezza e la sofferenza della morte che così romanticamente affliggeva l’animo umano.
Brongniart progettò il giardino della memoria sfruttando la morfologia del terreno sul quale si collocava, sul versante del Monte Luigi. Da qui ci si poteva inebriare con la vista sui magici panorami di Parigi. L’irregolarità dei percorsi, la vegetazione che attingeva all’immaginario infestante del pittoresco, il suo contrasto con gli elementi architettonici classici. Il ricongiungimento con la natura rielabora il passo “polvere siamo e polvere ritorneremo”. L’idea che di fronte alla morte (e alla natura) siamo tutti uguali, riporta ai discorsi di Rousseau sull’origine delle disuguaglianze fra gli uomini. Una lezione che l’uomo non vuole proprio imparare. La nuova città dei morti, seppure romantica e struggente, è manifesto del credo degli illuministi che si erano rotti i maroni della religione. Le tombe, aveva stabilito Napoleone, dovevano essere tutte uguali, fuori dalla città, in luoghi assolati e arieggiati, eliminando alla radice ogni possibile discriminazione.
All’inizio, nonostante l’aura magica che avvolgeva Père-Lachaise, nessuno voleva farci seppellire i propri morti. Ti immagini di dover affrontare un pellegrinaggio per arrivare a salutare amici e parenti defunti? E per giunta, ogni volta in salita. Va bene che ci siamo affezionati, però, che palle. Questo pensiero comune durò fintanto che il governo parigino non decise di trasferire alcune tombe di personaggi illustri. I primi furono Abelardo ed Eloisa, poi fu la volta di Molière e La Fontaine a cui seguirono altri ancora. Divenne allora un luogo di un certo lustro e in pochi anni venne ampliato più volte.
Architettura, traghettatrice di anime
Père-Lachaise diventò un cimitero monumentale. E come ogni buon esempio che si rispetti, le sculture erano ormai parte integrante del suo paesaggio funerario. Legate indissolubilmente ad esso dalla stessa narrazione. Così le tombe raccontavano di sentimenti di amore e amicizia, raccoglievano la testimonianza di meriti e talenti di chi aveva già vissuto. Il giardino diventa un palcoscenico. Bambini vestiti di tutto punto, angeli sull’orlo di una crisi di nervi, uomini che tengono in mano la maschera del loro stesso volto, antiche coppie innamorate. E poi ancora arredi, oggetti di uso comune, suppellettili. Tutto di pietra immutabile. Assistiamo ad una scoperta archeologica. Con lo stesso spirito avventuriero, l’impeto e la passione tipica dei romantici. Nelle distese di pietre mute, un esercito di statue racconta ad alta voce felicità e dispiaceri degli uomini mortali.
Fonti
Il culto della morte e i cimiteri nell’arte e nell’architettura
Sacred spaces: what can cemeteries teach us about our history and society?